Tante volte, troppe volte ho sentito dire: “non voglio andare in terapia perché voglio farcela da solo.”
Tante volte, troppe volte nel mio studio mi sono sentita dire: “dottoressa sono qui perché alla fine non c’è l’ho fatta da solo.” Ecco che sedersi nel mio studio viene vissuto come una sconfitta.
Quando sento questa affermazione chiedo e mi chiedo: “ma cosa significa questo farcela da solo?”
Mi chiedo e chiedo se ciò significa risolvere i propri problemi, le proprie difficoltà o i propri malesseri senza un aiuto esterno oppure significa percepire di avere il controllo della propria situazione tanto che non si ritiene utile “far entrare” un’altra persona, soprattutto se sconosciuta… Credo che ci possano essere tante altre risposte a questa domanda, ognuno troverebbe la sua interpretazione.
Eppure se ci si ferma un attimo a riflettere si può osservare come chi decide di andare in terapia “è già riuscito a farcela da solo”, provo a spiegarmi meglio: chi decide di entrare nel mio studio ed accomodarsi sulla poltroncina deve esser già riuscito a contattarmi, telefonicamente o per mail e per essere riuscito a contattarmi deve essersi informato, da qualche amico o parente o dal medico di base o deve aver già fatto una ricerca su Internet. E tutto questo in piena autonomia decisionale.
Anche laddove sia stato “convinto” da qualcun altro e quindi da un parente o un amico, ha comunque poi deciso di seguire questa convinzione o questo suggerimento.

Inoltre spesso ci si dimentica che chi decide di andare in terapia svolge un lavoro su se stesso per stare meglio: non sono io o un mio collega che attraverso la bacchetta magica portiamo la persona a stare meglio. Il terapeuta e la relazione terapeutica rappresentano soltanto lo strumento che deve essere usato per ritrovare il proprio benessere psicofisico; certo noi terapeuti aiutiamo in questo lavoro ma si tratta di una co-costruzione di pensieri, di emozioni, di processi, di elaborazioni, di associazioni.
Chi viene in terapia non può assumere un atteggiamento passivo, non può semplicemente sedersi e ascoltare stando in silenzio, deve mettersi in gioco, star male, ragionare, riflettere, elaborare, ricordare e associare.
Noi terapeuti senza l’aiuto della persona non siamo proprio “nessuno”.

Infine spesso ci si dimentica che il lavoro terapeutico, in alcuni momenti, può essere faticoso dal punto di vista mentale, fisico ed emotivo in quanto si viene a contatto con le proprie paure e le proprie angosce diventandone non solo consapevoli ma andandole anche ad elaborare. Questo lavoro viene svolto in seduta ma continua anche tra una seduta e l’altra, a tratti nell’inconscio e a tratti nella parte conscia della persona stessa.
La fatica non è solo questa ma è anche temporale ed economica perché un lavoro terapeutico richiede un investimento di risorse.

Credo sia veramente importante provare a cambiare le parole che noi usiamo circa le nostre esperienze e provare a pensare che la terapia non è né una sconfitta né un fallimento né un’assenza di risorse; anzi forse, paradossalmente, è proprio il contrario: bisogna avere le risorse per riuscire a lavorare in un contesto terapeutico, bisogna avere la capacità di fermarsi e riflettere, bisogna avere la capacità di riuscire a stare a contatto con il proprio dolore e questo non è da tutti.

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