Nel contesto terapeutico tra un paziente e il suo terapeuta si crea un mondo relazionale unico fatto di significati impliciti, simboli, parole esplicite, metafore, gesti, sguardi e tanto altro.
Il paziente impiega del tempo per fidarsi del suo terapeuta e sentire di poter parlare liberamente mostrando anche le parti più scomode di se stesso.
Eppure la relazione non è così perfetta: con il passare del tempo ci possono essere dei momenti di blocco o addirittura dei comportamenti regressivi del paziente che lo riportano a provare gli stessi sintomi che credeva aver superato.
La domanda “ma perché accade questo?” sorge spontanea e le risposte possono essere infinite: il paziente e il terapeuta si trovano di fronte una tematica inconscia particolarmente difficile da affrontare oppure il paziente stesso non riesce, in quel momento, ad elaborare un vissuto particolarmente doloroso e scomodo o ancora possono accadere degli avvenimenti difficili e traumatici nella realtà esterna che portano il paziente a stare nuovamente male oppure il paziente fatica ad aprirsi e vive un momento di noia pretendendo che sia il terapeuta ad intrattenerlo e “sbloccarlo” oppure il terapeuta stesso può aver “sbagliato” ad esempio esplicitando un rimando al paziente a cui egli stesso non era ancora pronto.
Ebbene sì, a volte, anche i terapeuti possono commettere degli errori ma quello che rende unica la relazione terapeutica è la possibilità che ha il paziente di poter dire al suo analista se si è sentito offeso o ferito o addirittura se qualcosa che è stato detto ha creato dei sentimenti di rabbia.
Io stessa invito sempre i miei pazienti a dirmi ciò che pensano: è fondamentale al lavoro terapeutico perché tutto ciò che accade può essere usato come materiale di lavoro diventando costruttivo per la stessa relazione terapeutica.
Ammetto che per un terapeuta sentirsi dire cose negative non è piacevole, eppure è necessario. Vi svelo un segreto: il terapeuta non si offende più del dovuto rispetto a qualcosa che gli viene detto né tanto meno si sente “distrutto” ma prende quanto emerso (compresi i suoi sentimenti negativi) e lo rielabora non soltanto personalmente ma in un proprio contesto terapeutico oppure in sedute di supervisione o di intervisione (gruppi di colleghi a confronto che, incontrandosi periodicamente, discutono sui propri pazienti).

All’interno del contesto terapeutico due soggetti si incontrano e in quanto tali possono emergere nella relazione stessa diversi vissuti tra cui anche quelli più negativi come sentimenti di antipatia, fastidio, nervosismo e irritazione.
“Ma è normale?”: ebbene sì, anche in questo caso è normale in quanto, come dicevo prima, due persone si incontrano facendo incontrare anche il loro carico di soggettività. La normalità è legata alla soggettività della relazione terapeutica; non esiste una normalità assoluta bensì una “normalità storica e contestualizzata”.
Ma attenzione! L’antipatia nel contesto terapeutico, se provata dal terapeuta stesso, non “va a braccetto” con la parola giudizio.
Ciò che viene provato dal terapeuta, positivo o negativo, viene definito controtransfert e, se analizzato, permette di comprendere cosa sia accaduto all’interno della relazione terapeutica o del paziente stesso che ha smosso quella particolare sensazione.

Credo che sia doveroso considerare un altro aspetto che si verifica nella relazione terapeutica: il terapeuta si “affeziona” al paziente ma ciò non significa necessariamente diventare amici bensì l’analista prova affetto nei confronti della parte che il paziente mostra nel contesto terapeutico che non necessariamente è la stessa parte che il paziente mostrerebbe all’esterno della stanza terapeutica: questo significa che se terapeuta e paziente si fossero casualmente incontrati “all’esterno” probabilmente non sarebbero emerse le stesse caratteristiche e gli stessi sentimenti.
Ripeto quanto detto prima: ciò che si crea nella stanza terapeutica è unico nel suo genere ma costituisce una “condivisione altra” rispetto a quella che avverrebbe all’esterno.

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