La paura di restare soli è una paura primordiale appartenente all’uomo. L’essere umano, infatti, è un animale sociale e in quanto tale ha bisogno dell’altro e di trovarsi in relazione con altri esseri umani.
Le relazioni sociali nutrono e arricchiscono le persone: fin da quando nasciamo ci troviamo inseriti all’interno di relazioni infatti fra gli stessi riflessi neonatali, indispensabili per la sopravvivenza del piccolo, alcuni hanno proprio l’obbiettivo di permettere al neonato di rimanere in relazione, pensiamo ad esempio al riflesso di “presa” per cui quando il palmo della mano del neonato viene sfiorato con un dito, il bambino chiude automaticamente il pugno con forza tenendo stretto il dito.
Un altro esempio è il sorriso del neonato che è un atto riflesso: sorge in modo involontario e automatico, perché così è scritto nei nostri geni e indica che, nelle prime settimane di vita, il bambino sorride anche senza la presenza di uno stimolo divertente. 
Questi riflessi così come il pianto, che il neonato usa per esprimere i propri bisogni, sono i primi strumenti che ha a disposizione per entrare in relazione.

Questi esempi mostrano, come già scritto prima, che la paura di restare soli è una paura viscerale che, in misura non troppo eccessiva, ognuno di noi possiede.
Questa paura diventa eccessiva se diventa invalidante.

Ma cosa significa che la paura di restare soli può essere invalidante?
Significa che noi non riusciamo a pensare di riuscire a vivere senza l’altra persona (chiunque essa sia questa altra persona) o significa che viviamo con la costante angoscia che gli altri ci abbandonino per cui tutti i nostri comportamenti e tutti i nostri pensieri sono volti al mantenimento del legame affettivo.

Se la paura di rimanere soli diventa totalizzante si trasforma in angoscia.
L’angoscia porta a credere di non essere in grado di svolgere una qualunque attività da soli portando a perdere fiducia in quelle che sono le proprie capacità; accanto a tutto ciò l’autostima crolla.

Ma perché in alcuni di noi la paura si trasforma in angoscia?
Le cause possono essere molte e diverse concatenandosi e sostenendosi tra di loro: ad esempio possono essere state vissute delle esperienze di vita in passato, come un lutto, la perdita di una persona amata, l’abbandono di un partner, che costituiscono un trauma. O ancora, andando ancora più a fondo nel passato, possono essere state vissute delle relazioni di attaccamento non funzionali che hanno portato a sperimentare, fin da subito, la perdita.

E ora proverò a rispondere alla domanda che mi viene fatta più spesso: “come faccio per stare meglio?”
Il primo passo è la COMPRENSIONE: comprendere se stessi e la propria paura attraverso un percorso di introspezione.
Smettere quindi di negare di avere paura entrandoci ancora di più in contatto: la negazione permette di non sentire l’angoscia che però è presente e in quanto tale viene agita.
Il secondo passo è l’ACCETTAZIONE: smettere quindi di colpevolizzarsi per le proprie fragilità e vulnerabilità.
Il terzo passo è provare ad analizzare la CAUSA: si tratta di un lavoro un po’ complesso da fare in autonomia soprattutto se in passato non si è già svolto un percorso terapeutico perché spesso le cause sono più profonde e meno coscienti. Questo passo è fondamentale perché arrivando alla fonte della propria angoscia si riesce a capire meglio che cosa tiene ancorati nella paura.
Un ulteriore passo è quello di ASSOCIARE il sentimento di solitudine a momenti di benessere, come leggere un libro o vedere un film o fare sport o andare a una mostra… ognuno di noi necessita di un momento per se stesso per ricaricarsi. Ecco che quindi la solitudine può avere un’accezione anche positiva.

Ma se l’angoscia di rimanere soli porta a sentimenti di tristezza, di depressione, di ansia e di dipendenza emotiva forse è arrivato il momento di chiedere aiuto a uno specialista.

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